Omissione e sospensione (scritto corsivo su Raymond Carver)


Per quanto mi riguarda, Raymond Carver è una vera e propria svolta, un’inversione, addirittura un dietrofront. Un punto di rottura che distingue fase uno e fase due della mia vita narrativa. Prima di Carver ho letto Zola, Dostoevskij, Moravia; ho seguito i romantici spasmi di Kerouac e le orchestrazioni sapienti di Orwell e Mann. Tutti romanzi di fondamentale importanza, tutte lezioni di stile e struttura per chi voglia scrivere cose sensate. Carver invece mi ha letteralmente oscurato la vista; ha smontato e rimontato all’incontrario le mie poche convinzioni narrative, e per finire mi ha lasciato nella tasca, senza che me ne accorgessi, un manuale di istruzioni alternativo e validissimo. Confesso che all’inizio mi sentivo ufficialmente sottosopra, forse anche raggirato; dov’è la ricerca stilistica – mi domandavo con irritazione crescente di fronte alla semplicità dei suoi testi; dove sono la passione e la profonda umanità del dolce Kerouac, il puntiglio descrittivo di Zola, le architetture sociologiche di Orwell? In Carver, dopotutto, non c’è niente. Ma i racconti cominciavo a divorarli, e certe scene mi pungevano sul cuore come spine. Se Kerouac, non molti anni prima, viaggiava nel solco di trasformazioni epocali intuibili (in parte persino evidenti) e correndo attraverso gli Stati trovava comunque di che entusiasmarsi, Carver – nella vita così come nei racconti – viaggia per necessità, per lasciarsi alle spalle un’ennesima fine. L’America di Kerouac è ridotta ad un rottame: niente più cieli stellati, montagne, deserti; niente più incontri fatati né spazi infiniti in cui possano verificarsi; niente più fede nell’uomo. Carver rappresenta di frequente una realtà di luoghi chiusi, separati dal contesto, dove ci si barrica e si attende il proprio turno. La provincia americana si ripete quasi identica, sdraiata mollemente nella sua dissoluzione; i protagonisti non hanno certezze, non hanno progetti né sogni che rendano degna la vita; spesso non hanno nemmeno un lavoro. L’atmosfera è sempre carica di sintomi pesanti e l’impressione è che per quanto giri male possa andare ancora peggio. Perché tutto questo niente vada a segno, serve solo l’essenziale. Servono frasi pulite, notizie precise sui protagonisti e dinamiche chiare, al limite del narrativo. Nessun accessorio stilistico, insomma. Le descrizioni tratteggiano nitidamente gli ambienti, le facce, una particolare movenza del corpo, un oggetto che poi scopriremo importante per l’ergonomia della storia; tutto quello che leggiamo è la realtà, ne comprendiamo la natura e le ragioni. I rapporti si trascinano, diventano più aspri e l’orizzonte si riempie di problemi; e quando i rapporti si chiudono e basta, ne resta comunque la scia. Inoltre c’è sempre un momento di stasi, un incanto fisiologico e sociale che colpisce i personaggi e fa da perno del racconto. È un’amara sospensione che ha l’aspetto della quiete ma è piuttosto una paralisi emotiva. È un sentimento difficile da dichiarare perché dichiararlo equivale alla fine. Allora si rimanda, si rimanda e non si arriva mai al punto. La tecnica dell’omissione è lo specchio di questa paralisi, la sospensione che ammorba la vita dei protagonisti e che protagonisti non sono per niente. Siamo parecchio al di là di Scrittura Creativa e Meccanica per un racconto. Carver ha stroncato la presunta completezza del romanzo. Carver è capace di plasmare in dieci pagine trent’anni di disastro americano. Sente con mestiere che l’America è spirata, e che in fondo non si merita stucchevoli elegie.