Vivere di sprawl (scritto corsivo su Michel Houellebecq)


Michel Houellebecq? Naturalmente ricordo il suo scritto su Lovecraft; mi era piaciuto? Rifletto qualche istante, là davanti allo scaffale degli autori che cominciano per “H”, col dominio della lotta nelle mani. Faccio scorrere le pagine, ci metto dentro il naso, e già l’odore del Tascabile Bompiani mi solletica l’acquisto. Entro nel primo capitolo e tutto funziona: i movimenti sono minimi, le considerazioni convincenti, il tono caustico ma sempre misurato. Penso che andremo d’accordo, io e Michel. Poi c’è quel titolo meraviglioso, uno sparo teorico in faccia al lettore: Estensione del dominio della lotta. Un titolo tanto imprudente da essere guanto di sfida: il romanzo dovrà incidere, lasciare un segno forte, rimanere fisso in testa senza margine di errore, pena il dimenticatoio. Funziona persino il cognome; una sonorità sorprendente – Houellebecq – non vi pare? Invece, nonostante le premesse sensoriali positive, la lettura del romanzo mi procura un sottilissimo fastidio, e l’impressione – soprattutto – che non porti proprio a niente. Il protagonista in effetti chiarisce la sua posizione nel terzo capitolo: il nostro Michel, trent’anni, analista-programmatore in una società di servizi informatici, conduce un’esistenza sottintesa, dura come una corazza di metallo, in cui la comunicazione fra individui, quando ha luogo, si mantiene su un livello strettamente funzionale. E Michel in persona ci informa che «la forma romanzesca non è concepita per ritrarre l’indifferenza, né il nulla», e che dunque sarà quasi fisiologico «inventare un’articolazione più piatta, più concisa e più dimessa». Il romanzo tuttavia non mi colpisce; ricorda  Lo straniero di Camus ma non c’è luce, né poesia, né quel dolce smarrimento che Mersault si porta addosso e che commuove per la sua semplicità. Mi tocca lasciarti nel limbo, Michel; adieu. Eppure, nei mesi seguenti, riprendo più volte il romanzo; rileggo due pagine, cinque, cinquanta, e quel taglio tra cinico e clinico imprime alle frasi una strana misura: a tratti disorienta e dà un’idea di svogliatezza narrativa ma contemporaneamente scende nelle fondamenta del sistema dentro il quale ci muoviamo. In questo sistema ci sono costanti (il denaro, l’attrattiva erotica e più in generale la base genetica) e variabili (la capacità di ognuno di estendere il dominio della lotta). Sconfiniamo nella lotta quando tutte le costanti ci martellano le tempie, quando ormai non c’è più niente da salvare. Più che un tentativo, è una certificazione di sconfitta; perché sono le costanti, a comandare. Esiste quindi un modo dignitoso di lottare? Sembra di no. L’unica cura sarebbe l’amore. Ma l’amore è molto raro – dice Houellebecq; del resto, quando anche lo si incontri, si dovrà lottare ancora, quasi sempre inutilmente. Finché si avrà di nuovo la visione, lucidissima, del proprio fallimento. In definitiva si trova in Houellebecq la deriva di un mondo crudele, l’infelicità, la sconfitta. Si trova la penosa solitudine dell’uomo, che al moltiplicarsi degli input sociali risponde con l’autocensura dei sensi e con l’isolamento. L’uomo che in extremis getta ancora qualche briciola di lotta sul terreno, e lì finisce. Per monitorare la lotta, comunque, sarà necessario osservarla dall’alto. Saliamo sul Concorde Immaginario della Lotta; decolliamo, andiamo in quota. Consideriamo lo sprawl delle nostre città, l’evidente dispersione di edifici costruiti per accumulo, al di là dell’interesse collettivo. Manufatti preoccupati di distinguersi, dotati di cancelli, recinzioni, posti-auto personali, ma incapaci di innescare una qualsiasi relazione che rimandi alla funzione di città. Allora, in un’area di sosta altrimenti deserta, vedremo un minuscolo uomo, uno solo, che aspetta la morte; e che mentre la aspetta si muove pochissimo, al rallentatore. Eccolo, l’uomo diffuso di Houellebecq.